Onere della prova in tema di esterovestizione, alla luce della recente giurisprudenza

Esterovestizione: evoluzione normativa

In un’economia sempre più globalizzata, in cui i modelli di business su scala internazionale sono sempre più diffusi, il tema dell’esterovestizione ha assunto un’importanza sempre maggiore nella strategia di contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva.

Con il termine “esterovestizione” si intende la localizzazione della residenza di una società all’estero e, in particolare ma non necessariamente, in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo di sottrarsi agli adempimenti previsti dall’ordinamento tributario del Paese di reale appartenenza[1]. Si tratta di un fenomeno tipicamente societario, che interessa in genere (ma non solo) le multinazionali, tale per cui la residenza della società risulta essere in un paese estero, sebbene le attività principali siano svolte in Italia. Talvolta, possono essere anche le persone fisiche a stabilire la residenza formale in Paesi diversi da quello nel quale hanno il proprio centro di affari e interessi; a tal fine, il legislatore ha introdotto una presunzione legale relativa di residenza in Italia per i contribuenti che trasferiscono la residenza in Stati “black list[2].

L’espediente utilizzato dal contribuente di stabilire la propria residenza o di localizzare una determinata struttura societaria in un altro Paese (spesso a fiscalità privilegiata) anziché in Italia è molto appetibile, in quanto ciò gli consente di sfuggire all’applicazione del criterio della worldwide taxation e, pertanto, di essere assoggettato ad una pressione fiscale meno gravosa, se non addirittura inesistente.

Si può quindi affermare che il concetto di esterovestizione è strettamente correlato a quello di residenza.

Infatti, si definisce esterovestito quel soggetto che, pur avendo formalmente la residenza (nel caso di persona fisica) o la sede (nel caso si tratti di ente o di società) all’estero, al verificarsi di determinati presupposti, espressamente indicati dal Testo Unico Imposte sui Redditi, deve considerarsi fiscalmente residente nel territorio dello Stato italiano.

In sostanza, si realizza una “dissociazione” tra residenza reale e formale/fittizia del soggetto passivo (persona fisica o società), che persegue lo scopo di assoggettare i propri redditi a tassazione in un Paese o in un territorio a fiscalità privilegiata.

Dal luglio 2006, con il Decreto Visco-Bersani (Decreto Legge 223/2006, convertito in Legge 248/2006), nel testo dell’articolo 73 del TUIR sono stati introdotti i commi 5-bis e 5-ter, recanti due presunzioni di residenza in Italia di società ed enti esteri.

Secondo tale previsione, si presumono residenti in Italia, salvo prova contraria, le società e gli enti che, pur avendo la sede legale o amministrativa all’estero, detengono direttamente partecipazioni di controllo, ai sensi dell’art. 2359 comma 1 c.c., in una società di capitali o altro ente commerciale residente in Italia e, allo stesso tempo, sono assoggettati al controllo, anche indiretto, da parte di soggetti residenti nel territorio dello Stato italiano oppure presentano un organo di gestione composto prevalentemente da amministratori residenti in Italia.

L’eventuale collocazione in Italia della residenza fiscale di società costituite all’estero, operata dall’Amministrazione Finanziaria in sede di verifica, determina, in primo luogo, la loro riconduzione nell’ambito dei soggetti residenti in Italia e di conseguenza potranno essere contestati rilievi, tanto di natura sostanziale, quanto di natura formale, che attengono all’IRES, all’IVA, ai sostituti d’imposta e, marginalmente, all’IRAP.

In secondo luogo, si porrà il problema di come determinare i valori degli attivi e delle passività. A tale aspetto, come si dirà, è dedicato l’art. 166-bis del TUIR.

Quanto alle persone fisiche, già dal 1999[3] vige una presunzione legale secondo cui, salvo prova contraria, si considerano residenti i cittadini italiani cancellati dall’anagrafe della popolazione residenti e trasferitisi negli Stati di cui alla black list del D.M. 4 maggio 1999.

Come riconoscere se un soggetto passivo d’imposta è “esterovestito”?.

Una volta definito il concetto di esterovestizione ed identificato il contesto normativo che lo regola, si vogliono ora individuare le modalità per riconoscerne i tratti peculiari.

In primo luogo, è necessario identificare quale sia l’esatta residenza fiscale del soggetto passivo; successivamente occorre verificare se si sia in presenza di una dissociazione tra residenza reale e residenza formale, posta in essere per poter usufruire di una tassazione in un territorio/Paese, eventualmente (ma non necessariamente) a fiscalità agevolata.

Per determinare la residenza fiscale è utile fare riferimento alla normativa italiana[4] e, ove sorgano conflitti di residenza, a quella internazionale[5], che dà rilievo al concetto di place of effective management.

In relazione a ciò, è possibile individuare tre criteri che collegano fiscalmente le persone giuridiche al territorio nazionale.

1) Sede legale

In via generale, con il termine “sede legale” si intende la sede sociale indicata nello statuto. Per rinvenire una definizione formale, è necessario rifarsi alle numerose definizioni di “sede societaria” presenti nel codice civile (il TUIR non ne fornisce alcuna).

In particolar modo si guardi:

•     l’art. 16, c. 1 del Codice Civile, per il quale l’atto costitutivo deve contenere lo statuto, la denominazione dell’ente, l’indicazione dello scopo, del patrimonio e della sede;

•     l’art. 46 c.c., per il quale «quando la legge fa dipendere determinati effetti dalla residenza o dal domicilio, per le persone giuridiche si ha riguardo al luogo in cui è stabilita la loro sede. Nei casi in cui la sede stabilita ai sensi dell’articolo 16 o la sede risultante dal registro è diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest’ultima»;

•     l’art. 2196 c.c., per il quale l’imprenditore che esercita un’attività commerciale deve, entro trenta giorni dall’inizio dell’attività, presentare all’ufficio del Registro del Imprese una richiesta di iscrizione nella cui circoscrizione stabilisce la sede, indicando – tra le altre cose – la sede dell’impresa[6].

2) Sede dell’amministrazione

La sede dell’amministrazione viene identificata con la sede effettiva (la quale non sempre coincide con la sede legale).

Con “sede effettiva” si intende il luogo in cui vengono prese tutte le decisioni che influiscono sull’impresa, dove si definiscono le strategie aziendali e dove vengono impartite le relative direttive.

La Cassazione[7], sul punto, specifica che per “sede effettiva” si intende il luogo dove si svolgono concretamente le attività di amministrazione, di direzione dell’ente e si convocano le assemblee «e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente». In altra sentenza[8], inoltre, viene sottolineato come la sede effettiva di una persona giuridica non sia meramente il luogo dove si trovano i suoi beni, i suoi stabilimenti e la sua attività produttiva, ma dove si svolgono l’attività amministrativa e direzionale, ovvero dove risiedono il suo legale rappresentante, i suoi amministratori e dove vengono convocate le assemblee societarie[9].

E tale definizione di tipo sostanziale, che identifica la sede dell’amministrazione nel luogo dove vengono prese tutte le decisioni chiave di natura gestionale e commerciale, è prevalente, in caso di situazione ambigue, rispetto alla definizione di tipo formale, la quale indica come sede dell’amministrazione il luogo dove è convocata l’assemblea dei soci.

3) Oggetto sociale

L’oggetto sociale ha due tipi di requisiti: uno formale, per il quale il suddetto oggetto viene identificato nell’attività essenziale che corrisponde ai bisogni primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo e dallo statuto; ed uno sostanziale, per il quale l’oggetto sociale viene individuato nell’attività d’impresa concretamente esercitata dalla società/ente giuridico.

In particolar modo, questo criterio è molto importante per le holding di gestione delle partecipazioni[10], in quanto è di primaria importanza non confondere l’oggetto principale dell’attività d’impresa propria del soggetto controllante con quello delle società partecipate, e con la collocazione dei beni posseduti. Invece, nel caso di holding “statiche”, ove non vi è una rilevante attività operativa, l’oggetto principale di tale holding sarà, di riflesso, quello della partecipata.

Inoltre, il Modello di Convenzione OCSE[11] fa riferimento al concetto di place of effective management, definizione che coincide con la nostra di “sede dell’amministrazione”. Sul punto, il commentario OCSE al modello 2017 afferma– fermo restando che l’individuazione della residenza delle persone giuridiche deve essere individuata per quanto possibile di comune accordo tra le amministrazioni – che è necessario prendere in considerazione una serie di aspetti di fatto, quali la sede delle riunioni del consiglio di amministrazione, il luogo in cui si svolge la gestione quotidiana “apicale” dell’ente, la legge che ne regola lo status giuridico, quello di conservazione delle scritture contabili. È quindi evidente come, per la Convenzioni internazionali, tra oggetto principale e sede dell’amministrazione prevalga quest’ultima, individuata “in concreto”.

Identificare il luogo in cui un soggetto passivo risieda è utile non solo ai fini del riconoscimento dell’esterovestizione, ma soprattutto per il rispetto del principio della worldwide taxation, secondo cui una persona giuridica residente nel territorio di uno Stato è assoggettata a tassazione per i redditi prodotti ovunque nel mondo.

Esterovestizione: come valutare gli asset?

Nei casi in cui un soggetto viene ritenuto “esterovestito”, al ricorrere delle presunzioni relative di legge o in base ad un accertamento “in positivo”, si pone il problema di come valutare gli asset.

Soccorre, sul punto, l’art. 166-bis del TUIR, introdotto dal decreto internazionalizzazione e modificato dal D.Lgs. 142/18 in sede di recepimento della Direttiva ATAD, il cui scopo è quello di stabilire un criterio omogeneo di determinazione dei valori di entrata, in tutti i casi in cui cambia lo Stato che può esercitare la potestà impositiva sui beni o sui complessi aziendali trasferiti.

Le regole dell’art. 166-bis del TUIR[12] si applicano non solo ai casi di trasferimento di residenza fiscale di un’impresa o di un complesso aziendale, al trasferimento di attivi a una stabile organizzazione sita in Italia, e a operazioni straordinarie quali l’incorporazione da parte di un soggetto italiano di un’impresa estera, ma anche all’esterovestizione: in questo senso si era pronunciata la relazione al D.Lgs. 147/15, e, con riferimento alla riforma, l’Assonime, con la Circolare 4 agosto 2021, n. 24.

Pur potendosi concordare con tale conclusione, è necessario individuare la data da cui far decorrere la valutazione degli asset[13], poiché la Società può essere esterovestita ab origine o non ab origine.

Nel primo caso, se la società risulta esterovestita sin dalla sua costituzione, il periodo da considerare per la valutazione degli asset decorre da tale momento. In tal caso, l’operazione di valorizzazione risulta complicata, in quanto i redditi reinvestiti fino alla data della contestazione risulterebbero frutto di evasione. Inoltre sarebbe necessario tener conto anche dell’eventuale decadenza dal potere di accertamento[14].

Nel secondo caso invece, la Società assume residenza italiana a decorrere da un dato momento, che non corrisponde alla data di costituzione. È solo da quel momento che si rideterminano i valori fiscali.

Per rendere più agevole l’applicazione di tale valorizzazione, si è proposto di considerare la decadenza dei periodi di imposta e di conseguenza di tener conto solamente dei valori correnti degli asset esistenti nei periodi di imposta ancora accertabili. In alternativa, è stato suggerito di prendere in considerazione la non retroattività della norma, e così di far decorrere la valorizzazione dei beni d’impresa dal primo esercizio utile alla data di entrata in vigore della disposizione.

Esterovestizione ed onere della prova alla luce delle recenti pronunce giurisprudenziali.

Il tema dell’esterovestizione è stato più volte affrontato nel corso degli ultimi anni in particolar modo dalla Suprema Corte, all’interno della quale si sono formati due orientamenti: i) per il primo, l’esterovestizione rientrerebbe nel fenomeno dell’abuso del diritto e, dunque, spetterebbe all’Agenzia delle Entrate dimostrare l’artificiosa localizzazione della società all’estero, finalizzata esclusivamente a ottenere un vantaggio fiscale[15], ii) per il secondo, invece, l’individuazione della residenza ai fini Ires va effettuata sulla base delle disposizioni del citato art. 73 Tuir, trattandosi di una fattispecie riconducibile all’evasione e non nell’abuso del diritto[16].

L’adesione all’uno o all’altro orientamento non è di poco conto, in quanto determina delle conseguenze ai fini della ripartizione dell’onere della prova e delle garanzie riconosciute al contribuente in sede di controllo e accertamento, nonché nell’eventuale successiva fase contenziosa.

Nel solco della tesi che ravvisa nell’esterovestizione una fattispecie riconducile all’abuso del diritto, si richiama la recente sentenza della Corte di Giustizia di II grado della Liguria n. 56 del 25 gennaio 2023, la quale, nell’accogliere l’appello del contribuente, ha ritenuto non adeguatamente provata l’esterovestizione della società accertata, formalmente localizzata in Danimarca e avente ad oggetto il noleggio a terzi di aereomobili. La società, secondo i giudici, «era pienamente attiva ed operativa all’estero, come risulta dal relativo contratto di affitto, dalle bollette delle utenze, dagli estratti conto bancari, dalle assemblee sociali ivi svolte e dalla corrispondenza e documentazione sociale ivi ricevuta e conservata, dall’assenza di rapporti con banche italiane».

I giudici di seconde cure in tale pronuncia confermano il principio per cui il nuovo articolo 7, comma 5-bis del D. Lgs. 546/1992 sia applicabile anche ai giudizi in corso al 16 settembre 2022, come quello in esame, e impiegano la norma come criterio guida nella valutazione delle prove versate in giudizio. Ovviamente, in presenza delle presunzioni legali di esterovestizione di cui all’art. 73, commi 5-bis e ss. del Tuir, sarà onere del contribuente di provare l’effettiva localizzazione all’estero, sicché la nuova regola di distribuzione dell’onere probatorio non sarà decisiva.

Dunque, posto che, secondo questa impostazione, l’esterovestizione richiede una prova rigorosa, risultante sia da una costruzione societaria di puro artificio all’estero, sia dall’esistenza in Italia della sede effettiva, la CGT II grado della Liguria richiama una nota sentenza della Corte di giustizia Europea[17] secondo cui, in tema di libertà di stabilimento, «la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato».

In definitiva, deve ritenersi che quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l’operazione sia meramente artificiosa (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.

I concetti sopra richiamati sono stati ribaditi ed ampliati anche nella decisione della Cassazione n. 33234/18[18] che ha affermato: «... occorre, per un verso, che esso [il meccanismo di esterovestizione, ndA] abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle norme e, dall’altro, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale».

Sarebbe necessario, pertanto, in base a questo indirizzo, accertare che lo scopo essenziale di un’operazione sia quello di ottenere un vantaggio fiscale, risultato che non può però ravvisarsi nella creazione (o nel trasferimento) della sede in un altro Stato membro; ciò perché, quando il contribuente può scegliere tra due operazioni, non è obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale[19].

Secondo questo orientamento, dunque, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa soltanto se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato. Ne consegue che una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività.

Tuttavia alcune sentenze della Cassazione, tra cui Sez. V, 25 novembre 2022, n. 34723, conducono a diverse (e più condivisibili) conclusioni.

Ed invero, la Suprema Corte, dopo avere dato conto dell’esistenza dei due orientamenti contrapposti sopra richiamati, aderisce alla tradizionale qualificazione dell’esterovestizione come fattispecie evasiva nei confronti di un soggetto localizzato nel territorio della UE, e pertanto ritiene irrilevante, se sussiste nel territorio dello Stato di uno dei criteri di collegamento previsti dall’art. 73 TUIR, l’indagine sull’eventuale finalità elusiva perseguita dal contribuente.

Nello specifico, nella sentenza n. 34723/22, i giudici di Piazza Cavour hanno risolto un caso di esterovestizione di una società di diritto sloveno, con sede effettiva della propria attività in Italia, sancendo che la contestazione dell’esterovestizione debba passare attraverso un articolato esame dei tre criteri di collegamento previsti dall’articolo 73, comma 3, Tuir (ossia, come in precedenza illustrato, la sede legale, la sede dell’amministrazione o l’oggetto sociale).

La Corte di Cassazione, rigettando il ricorso presentato dalla società, ha dunque chiarito che, in materia di imposte sui redditi delle società, l’applicazione dei concorrenti criteri di collegamento di cui all’articolo 73, comma 3, del Tuir è compatibile con la contestazione, da parte della Amministrazione finanziaria, di un’evasione fiscale, a prescindere dall’accertamento di un’eventuale finalità elusiva della contribuente, finalizzata a perseguire uno specifico vantaggio fiscale che altrimenti non le spetterebbe. L’esterovestizione, si afferma, non è da considerarsi necessariamente un fenomeno abusivo, ma deve essere inquadrata sulla base di una valutazione in concreto dei tre criteri, alternativi tra di loro, previsti dalla normativa interna. In altri termini, l’accertamento dell’esterovestizione societaria prescinde dalla sussistenza di eventuali forme di abuso del diritto.

Ai fini della configurazione di evasione, dunque, non è indispensabile l’indagine sulla sussistenza (o insussistenza) di ragioni essenziali di risparmio fiscale, quanto accertare ove l’ente abbia la sede in base ai parametri indicati dall’art. 73 del Tuir.

a cura di Cristina Rigato e Giorgia Sarragioto

per il Centro Studi Deotto Lovecchio & Partners

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[1] Cass. n. 2869/2013.

[2] Art. 2, comma 2-bis, del Tuir. La presunzione, precisa Cass. Sez. V, 10 ottobre 2014, n. 21437, opera in favore di chi la invoca e quindi, eventualmente, anche del contribuente.

[3] Art. 10, L. 448/98, che ha introdotto nell’art. 2 del TUIR un nuovo comma 2-bis.

[4] Art. 73 e all’art. 5 comma 3, lettera d) del TUIR.

[5] Art. 4 del Modello di Convenzione OCSE e relativo commentario (cfr. in particolare § 23 e ss.).

[6] Simili: art. 2197, art. 2330, art. 2328 e art. 2475 del Codice Civile.

[7] Cass. sentenza n. 3604/1984.

[8] Cass. sentenza n. 3028/1972.

[9] Cfr. Cassazione sentenze n. 3910/1988, n. 2515/1976 e n. 2472/1981.

[10] Circolare n.67/2007 di Assonime.

[11] Documento che prevede regole per evitare la doppia imposizione fiscale sui redditi e sul patrimonio, definisce le aliquote fiscali applicabili e stabilisce le procedure per la risoluzione delle controversie fiscali tra i paesi.

[12] Che si possono così sintetizzare: se lo Stato di provenienza appartiene all’U.E. o comunque assicura un adeguato scambio di informazioni, gli attivi assumono il valore di mercato (secondo criteri “locali”, con irrilevanza di perizie o valori in uscita dall’altro Stato: Ris. n. 92/E/19), tenuto conto anche della disciplina del transfer pricing; diversamente, il valore degli attivi è determinato in base a accordo preventivo o, in via residuale, in base al minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore di mercato (e, per le passività, in base al maggior valore tra questi).

[13] Art. 166-bis del TUIR.

[14] Secondo A. Prampolini, Trasferimento di residenza di società e “valori in ingresso”, Corr. trib., 2015, p. 1925, alla società ab origine residente in Italia dovrebbe applicarsi il solo art. 110 del TUIR.

[15] Cass. n. 2869/2013 e 33234/2018 richiamate nella sent. 7454/2022; 8297/2022; 5075/2023.

[16] Cass. 11709 e 1710/2022; 23150 e 23225/2022; 1753/2023; 7495/2023.

[17] Corte di Giustizia dell’U.E., 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas.

[18] Richiamata anche dalla sentenza del 27/10/2020 n. 784/4 - Comm. Trib. Reg. per le Marche.

[19] Corte Giust. in causa C- 419/ 14, cit., punto 42; si vedano poi le sentenze Halifax e a., causa C-255/02, punto 73; Part Service, causa C-425/06, punto 47, nonché Weald Leasing, causa C-103/09, punto 27, RBS Deutschland Holdings, causa C-277/09, punto 53 e, più di recente, X BV e X NV, cause C-398/16 e 399/16, punto 49. A livello interno, il principio del legittimo risparmio d’imposta è consacrato dall’art. 10-bis, comma 4, della L. n. 212/2000.

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